Vedere senz’occhi
Il nostro guardare, il nostro vedere o essere visti si produce ormai attraverso una mediazione tecnica che disincarna lo sguardo, allontana i corpi, dissolve i legami con il mondo: ci siamo abituati, la nostra esistenza è punteggiata di strumenti con cui osserviamo e veniamo osservati – macchine fotografiche, monitor di computer, tecnologia di sorveglianza o medica –, c’è sempre un obiettivo, uno schermo tra noi e il mondo. Siamo immersi in un perenne “stadio video”, è il nostro ecosistema. Lo sguardo, per la prima volta nella storia dei sapiens, è perfettamente possibile in assenza di presenza e, sempre più spesso, il mondo ci appare nella sua forma spettrale. Ma forse non è il mondo a essersi dissolto in pixel, forse a essersi dissolti nella luce spettrale di miliardi di monitor, schermi, display, siamo noi. Ed eccoci, evanescenti come spettri, a fluttuare su un’immagine satellitare o a guardarci in un video di sorveglianza, in un selfie, in un’ecografia.
Come si osserva uno spettro, con quali strumenti? Se lo spettro del mondo e di noi stessi fosse invece guardato direttamente, quale immagine ne nascerebbe? Dalle grandi tele dipinte a partire dagli anni 2000 – intessute di una sorta di tragicità classica, in cui appaiono «silenziose e metafisiche figure umane che sembrano sull’atto di apparire o di dissolversi […] figure semplici, immobili e nostalgiche, declinate con discrezione ma stratificate di senso e di storia» – Bruno Lucca ha saputo elaborare, attraverso una pratica pittorica coerente e stratificata, un discorso che interseca questi problemi, un corpo a corpo con questa materia spettrale, ineffabile e sfuggente.
Anche “Mute attese”, la serie di opere che lo impegna dal 2018, è incentrata sul rapporto tra la flagranza del corpo e l’irresistibile forza che disincarna ed evapora la presenza. Partendo da un dialogo con la ritrattistica barocca – fondo nero, posizione del soggetto, attenzione al dettaglio – l’artista affronta questi problemi scartando la tecnologia dal suo interno, assumendola nel processo stesso della pittura per riformulare il rapporto tra il soggetto, lo sguardo umano e quello macchinico.
Il lato affascinante di questa recente serie di quadri è il modo con cui vengono fatti, sono immagini apparentemente semplici e dirette che invece nascondono un processo lungo e tecnicamente articolato: il pittore non dipinge ma fa un ritratto fotografico al suo soggetto, ecco una prima mediazione tecnica (si deve precisare che il rapporto di Lucca con la fotografia non è semplicemente strumentale, buona parte della sua attività artistica si sviluppa lungo questa direttrice intrecciandosi con quella più squisitamente pittorica); successivamente, proietta questa fotografia sulla tela, una seconda mediazione tecnica che è un vaglio, un filtro; quindi ridisegna l’immagine proiettata che è come cercare di afferrare un’apparizione, delimitare un’ombra, dipingere uno spettro.
Un processo che riconduce queste figure a una spettralità simile a quella radiografica, in cui le immagini dei corpi vengono progressivamente spogliate, quasi disincarnate fino a raggiungere l’evidenza scheletrica di un segno bianco – come inciso su un fondo nero e corrugato – che ha l’apparenza delle ossa ritagliate in una radiografia: quel biancore che emerge dal nero della lastra, la cui visione non è possibile direttamente ma solo in un controluce che lo sottrae al buio, all’ombra in cui è generato.
C’è dunque nella prassi di Lucca una sorta di allontanamento dal corpo flagrante del suo soggetto, un non esserci mentre si guarda, mentre si dipinge (il momento decisivo in cui si poggia la punta del pennello sulla tela…), un mancare il rapporto diretto, preferendo lo sguardo che supera la sensazione pellicolare perseguendo, in un progressivo sforzo di smaterializzazione, l’evidenza spettrale di un’immagine altrimenti invisibile. I suoi soggetti, tracciati da un segno liquido e pallido, sempre sul punto di sparire, sospesi nella materia buia a cui sembrano essere stati strappati, esistono in perfetta continuità con le apparizioni fugaci – figure d’ombra, fiori tratti da una vanitas barocca, ritratti evanescenti di persone amate, fotografie scattate al buio – che hanno riempito le sue tele negli ultimi vent’anni.
In Bruno Lucca è evidente la volontà di dissolvere l’evidenza superficiale del mondo – che danza ogni giorno davanti ai nostri occhi e ci abbaglia con la sua ammaliante parvenza – per cercare di coglierne invece la spettralità e, per fare questo, s’inventa un modo per vedere senz’occhi. È una pittura di ciechi, forse solo così si guarda uno spettro.
Daniele Monarca