Due senza

Flavio Albanese: Due senza: composizioni isoritmiche di Bruno Lucca e Daniele Monarca

Out of control, liberi e uniti. Uniti per caso? E comunque una coppia, un duetto di voci soliste, che non cantano all’unisono: isoritmie che condividono lo spazio, originando strutture di grandi complessità.
La struttura formale si arricchisce di proporzioni, “aumentazioni” e “diminuzioni”.
John Cage, come in molta musica polifonica tardomedioevale, faceva uso di composizioni isoritmiche…
Anche l’opera di bruno lucca rivela prepotentemente la urgente necessità  della traccia, come metafora dell’apparire, o meglio (ri)apparire, di statrigrafie formali preesistenti.
I precedenti processi formali di lucca, già conoscevano e ben controllavano il valore metaforico del residuo: profili antropomorfi si dileguavano su ampie superfici monocrome, lasciando non solo la loro silouette, ma anche una costante “sbavatura” del soggetto, sbavatura come parziale dissacrazione del soggetto stesso.
Nella serie di opere presenti Serre,  le antropografie vengono sostituite da forme botaniche elementari, tracciati floreali riconoscibili e identificabili come calle e ireos.
Le stesure monocromatiche sono le stesse, ma l’oggetto fluttua in uno spazio libero, non si appoggia ai bordi come prima, perde consistenza e levita: luminiscenze prendono il posto delle sbavature.
Adesso e qui è la luce!
E lo sguardo corre lì, dove permane un alone di cometa, segnale luminoso al centro del soggetto.
Come se il soggetto, sottoposto alla luce e da essa eccitato, collocato al buio, mantenesse la sua capacità di rilasciare fotoni, restituendo in continuum, l’energia accumulata.
Un omaggio al disvelamento ma anche all’apparire, come epifanie e nascite di essenze vegetali, che conservate all’interno di una grande contenitore vetrato in piena luce, nella notte permangono col loro accumulo fluorescente.
Appena stesa la superficie oleosa appare come tale, cristallizzandosi col passare del tempo, in un processo di mineralizzazione, come a divenire substrato alimentare per i fiori collocati, humus rinnovabile che il tempo produce con gli stessi residui vegetali.
Una lunga essicazione che accompagna il lavoro con la stessa persistenza sequenziale e ripetitiva delle stagioni.
E’ il “luogo” della coltura dichiarato e qui assente, che assume il valore di elemento mancante e persistente: è la serra che ci consegna questi fiori con la cura e l’attenzione che ogni essere vivente merita.
A conversation piece
Il dialogo a distanza tra i due artisti appare quanto mai “costretto” dalla loro conoscenza, ma sopratutto dalla condivisione di uno stesso spazio di lavoro, magico luogo centrale e periferico allo stesso tempo, un margine di efficacia sorprendente, un residuo urbano intatto, all’interno di una città che restaurandosi, ha perso il suo stesso carattere “storico”.
Violente abrasioni, mutilazione e cancellazioni sono il risultato di una lunga storia del “restauro” della città storica, dove i frantumi di un passato complesso e schizomorfo, stentano a sopravvivere se non in luoghi fortuiti come questo.
A conversation piece.
Un dialogo a distanza fatto sopratutto di silenzi, io credo, lunghi interminabili silenzi voltandosi le spalle: Daniele faccia a nord, Bruno faccia a sud sotto lo stesso magnifico soffitto.
I took this walk to ease my mind
To find out what’s gnawing at me
Wouldm’t think to look at me,
that i spend a lot of time in education
It all seem so long ago
I’M A THINKER, NOT A TALKER
I’VE NO-ONE TO TALK TO, ANIWAY
I can’t see the road
for the rain in my eyes
Ahhh…..
(David Bowie, Conversation place, 1970)

Stefania Portinari: Le déjeuner des canotiers (1880-81)

“Due senza” è una specifica disciplina della voga: significa che la barca è composta da due canottieri che procedono ciascuno con un solo remo e non hanno timoniere: il capovoga e il prodiere controllano da soli la direzione mentre vanno, eventualmente anche verso il contemporaneo, come i pittori Bruno Lucca e Daniele Monarca, che lavorano assieme da dieci anni nello studio 1280, convivendo artisticamente in un convento medievale del centro storico di Vicenza, abbandonato nel 1280, conducendo ognuno la propria ricerca.
Bruno Lucca vira la propria pittura a un nuovo ciclo intitolato Serre: nascondigli e velari che racchiudono fiori, essenze botaniche su campi monocromatici che sbocciando al centro del quadro dicono di luci ed ombra. L’olio di lino fa scivolare l’immagine e la realizza, crea una figura come avviene con i cerchi che si espandono nell’acqua quando vi cade un ciottolo, mentre un profilo netto ma delicato di pastello bianco la contorna abbracciandola, consegnandole un’identità, stringendo il segreto della sua esecuzione.
Come un raffinato Jean Floressas Des Esseintes, Lucca impagina un giardino conclusus in cui le sfumature contano più delle specie, dove il gardening design non conduce il gioco di classificare scientificamente i bocciuoli ma quello di indicare, attraverso la flora, i differenti modi del vedere, le declinazioni dell’inganno e l’apparizione di forme sinuose. À rebours rispetto alle mode iperrealiste, sente la seduzione controcorrente della pittura-pittura, quell’ambito artistico che indaga il ductus più che l’iconografia.
Il bordo delle Serre, che lasciano intravedere il colore naturale della tela di supporto, si pone come una linea subliminale alla periferia del quadro, un segmento che conferisce effetto tridimensionale e dà pienezza e spessore alla superficie visiva, tanto quanto l’effetto lucido-opaco dato dalla presenza o dall’assenza dell’olio di lino. Da questi effetti di sfocatura si dischiude un’identità botanica con un nucleo luminoso centrale che brilla di luce propria emergendo dall’ombra, dal lago oscuro e silenzioso della meditazione. Le nuances in toni bassi, scuri, rossi, blu, marroni e grigi offrono all’occhio visioni distaccate e danno una differente percezione a seconda di come si ponga il fruitore dinanzi all’opera.
La decisione di rappresentare foglie di ciclamino o calici di narcisi è anch’essa condotta da una volontà d’effetto, così come il porre tra loro vegetali d’invenzione: sono fiori scelti per la forma circolare come pretesti di indagine visiva, per la possibilità tecnica di gestire la luce che emanano, per suscitare la nostra capacità intuitiva secondo parametri meta-narrativi che vanno oltre l’individuazione del soggetto.
La precisione e la cura del segno non sono un’esibizione di estetica quanto di concettualità: le Serre si manifestano con una piacevolezza lirica, sono teatrali nel loro apparire ma, come in una ricerca di laboratorio, sondano ricordi e sentimenti sottovuoto, diventano quasi astratte nell’ordine essenziale della loro impaginazione, sono un procedimento mentale tramite il quale, come afferma Bruno Lucca, “camminare in mezzo tra figurativo e astrazione”. Come le sue precedenti ricerche pittoriche sulle Teste senza individualità, in cui le sagome prive di volto erano figure inconsistenti ed evanescenti in cui si concentrava l’interesse per un’immagine che svanisce, anche queste Serre plurali non hanno nome, perseguono strategie di fascinazione e di performazione di identità, sono metafore dell’apparire, un pretesto per riflettere su temi legati alla consistenza delle cose ed esibiscono allo stesso tempo la tenerezza dei lillà bianchi del Carnation Lily, Lily Rose (1885-6) di John Singer Sargent e l’indifferente vigore vegetale di un antico album botanico.
I due senza nocchiere si avventurano entrambi nei territori della percettività mettendo alla prova il senso del luminoso e dell’oscurità e conducono ambedue in questa mostra alcune pitture che superficialmente accampano fiori e impiegano stoffa e olio di lino come elementi sostanziali delle opere…
La colazione dei canottieri (1880-81) di Pierre Auguste Renoir rappresenta alcuni amici al ristorante Fournaise a Bougival, un luogo di ritrovo per i canottieri che praticano la voga sulla Senna, dove la nouvelle vague parigina degli impressionisti si mescola a ricchi borghesi, attrici, dame dell’alta società, scrittori e artisti, tra cui il pittore e collezionista Gustave Caillebotte, giocando a vestirsi informalmente proprio al modo dei canottieri. Fu composto forse al seguito di una scommessa proposta da Émile Zola, che aveva provocato i “pittori della vita moderna” a comporre un’opera complessa, nuova e non superficiale, obiettivo periglioso e sfuggente come la ricerca di pittori e artisti anche vicentini che riempiano il “contenitore per il contemporaneo” di AB23. Bruno Lucca e Daniele Monarca, cui è ora affidato, lo spingono per un tratto nella direzione che sentono più appartenga loro, senza l’imposizione di un’unica visione. Assieme a loro, nel cercare di intuirne, interpretarne e raccontarne l’itinerario, si affiancano altri vogatori, tutti senza timoniere.

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