Bruno Lucca

Michele Bonuomo: Il pittore che vede

Non declama, non si ammanta di enfasi, non si fa sedurre dall’ultimo ritrovato para-tecnologico. Bruno Lucca dipinge. Perché è un pittore. Non vi sembri, questa, una dichiarazione tautologica, lapalissiana nella sua elementarietà. D’altronde – è fin troppo scontato ricordarlo – a un pittore si chiede (si dovrebbe chiedere) soltanto di dipingere. Ovvero, il suo fine primo e ultimo continua ad essere costruire e ricostruire il mondo (naturale, psichico, fantastico, sacro, edificante o perverso…) con la magia prodotta dalla materia cromatica, da segni di sciamano e da un’intelligenza visionaria, propria di chi questi elementi sa governare. Il pittore usa le mani per mischiare e inventare colori e la testa per formare e fermare visioni. Le mani e la testa (passione e ragione): due estremi fisici entro cui il mistero della pittura volta per volta si è rivelato. E si è ulteriormente complicato – dalla sua prima apparizione, in un antro perso nel tempo, rischiarato e animato dalla luce del fuoco, fino ai nostri giorni, affollati di rappresentazioni sempre più smaterializzate e virtuali. Un mistero divenuto folgorante nella sua rappresentazione, o che si è oscurato nei gorghi più profondi dell’incomunicabiltà. Un mistero che per essere celebrato ha sempre e solo preteso silenzio, ritualità, dedizione e assoluto spirito di perfezione. Pena, altrimenti, la condanna alla superficialità. Buona, questa sì, per esaltare il banale e creare illusione… «Il lavoro di perfezione», ci ricorda Georges Roditi, «dipende contemporaneamente dal mondo della volontà e da quello della contemplazione, poiché, pur avendo per motore l’inquietudine, l’insoddisfazione, il bisogno di agire, ha dinanzi un cammino tracciato da un’acquiescenza: si progredisce nel senso di ciò che si ama, si vorrebbe che l’opera intera fosse somigliante. La vita di perfezione è attiva, ed è una vita di costanza e di amore».
Volontà e contemplazione, nella fattispecie, sono le cifre che con più immediatezza connotano l’identità autentica e profonda di Bruno Lucca.
Per dipingere un quadro dove non c’è più traccia di superfluo, nè formale nè concettuale, dove il colore è incorporea apparizione – nata quasi da una sorta di variazione metereologica – Bruno Lucca dimostra di avere un grande coraggio. E, allo stesso tempo, una forza suprema per sfuggire a lusinghe della bella maniera, per non lasciarsi prendere la mano dagli artifici di una retorica che, secondo i capricci del momento, stabilisce canoni di rappresentazione.
I “paesaggi umani” che sulle sue tele il pittore scopre e attraversa, hanno la stessa intensità delle visioni di un mistico che non ha paura di scandagliare il vuoto, di un visionario ascetico che sa tenacemente indagare l’assenza. Che guarda l’inguardabile con la fissità di uno strumento meccanico, fino a impressionare – come in un processo da camera oscura – una tela bianca che contiene già tutto in sè, ma che, per poterlo rivelare al massimo della sua chiarezza e luminosità, ha bisogno di un pittore solitario e perfetto.
Così facendo Bruno Lucca è diventato una sorta di veggente, una persona che vede direbbe Artaud, che riesce a mettersi in contatto con le ombre più remote della mente e a firmare un armistizio con le più insondabili inquietudini. Perché in un suo quadro si può sprofondare senza mai scomparire, ci si può perdere senza divenire preda dell’angoscia. Ci si può annullare e sentirsi appagati.

close menu
close menu